– di Giuseppe Savagnone –
Le polemiche suscitate dalla presa di posizione del dirigente scolastico di Bergamo, che ha negato il permesso di allestire un presepe nella sua scuola, si prestano a due considerazioni.
La prima riguarda il rapporto tra segni religiosi e laicità dello Stato. Il dirigente ha motivato il suo rifiuto appellandosi all’argomento che «la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione». Principio di per sé inoppugnabile, ma che forse non si applica al caso in questione. Perché considerare lo spazio pubblico come un territorio neutro, da cui escludere le identità culturali e religiose presenti nella comunità, significa in realtà destinarlo ad essere non «di tutti», ma di nessuno.
È la logica della cosiddetta “laicità alla francese”, quella che nega l’uso del velo – anche là il problema è nato nelle scuole – e che per legge confina la sfera religiosa nell’intimo delle coscienze, escludendone le manifestazioni esteriori. Nella convinzione di realizzare, così, una perfetta imparzialità dello Stato nei confronti delle diverse visioni della realtà e della vita: «E’ stato un modo di rispettare tutti», ha detto il dirigente di Bergamo, commentando la propria decisione.
Ma veramente rispettare le persone significa costringerle a rinunziare alla piena esplicazione della propria fede? Le religioni non sono nate per essere meri stati di coscienza, ma per plasmare integralmente la vita di coloro che le professano. E dietro la pretesa neutralità di questa laicità c’è una precisa ideologia, che nega loro questo diritto in nome della pretesa dello Stato di essere l’unico protagonista della vita pubblica. Cosicché, alla fine, la sola qualifica legittimata in questa sfera rimane quella di “cittadino”. Ma gli esseri umani sono molto di più, e non solo in forza della loro vita interiore, ma in tutta la ricchezza della loro esperienza relazionale che li rende comunità.
Questo vale a maggior ragione quando è in gioco la tradizione culturale e religiosa di un popolo. Sarebbe assurdo che in India, in nome della laicità, si cancellassero i simboli di una storia che si è costantemente ispirata all’induismo. Né l’eventuale appello al diritto della minoranza cristiana di non essere discriminata potrebbe motivare una simile scelta, che violerebbe il diritto della stragrande maggioranza a esprimere simbolicamente nello spazio pubblico la propria fede e la propria tradizione.
Ciò è tanto più vero nel caso in cui le minoranze non siano autoctone, ma vengano accolte dalla popolazione che professa la fede maggioritaria, come è, per i musulmani e i credenti di religioni diverse da quella cristiana, in Italia. Un paese non può e non deve, per un malinteso rispetto nei confronti degli altri, abdicare alla propria identità culturale e spirituale. L’Italia non può diventare un contenitore vuoto, una mera espressione geografica, per non dare ombra a chi vi giunge, invece, con una forte caratterizzazione religiosa. Sarebbe un suicidio che non gioverebbe neppure al dialogo, perché per dialogare bisogna essere innanzi tutto se stessi. E tanto varrebbe, a questo punto, cancellare dai nostri programmi scolastici Dante e Manzoni, se non addirittura l’intera storia dell’arte, al 90% ispirata a tematiche cristiane!
In realtà appare fondato il sospetto che la sempre più diffusa rinunzia alla nostra tradizione non derivi tanto dal rispetto verso gli altri, quanto da uno svuotamento interiore della nostra società, la cui sola religione, ormai, è il consumismo, con i suoi onnipresenti simboli pubblicitari (la cui pervasività nessuno contesta). Ma questo, invece di affratellarci a chi, come i musulmani, viene da noi portandosi la propria fede, ce ne allontana, perché fa venire meno il solo terreno su cui potremmo intenderci, che è quello del rapporto con l’unico Dio che noi e loro potremmo avere in comune.
Quanto poco il rifiuto di fare il presepe sia un segno di rispetto verso l’Islam, piuttosto che del trionfante nichilismo, lo dimostra fra l’altro il fatto che i musulmani in realtà non potrebbero minimamente sentirsi offesi dalla nostra celebrazione della nascita verginale di Gesù, perché condividono con i cristiani la fede in questo mistero. Nel Corano la sola Sura dedicata a una donna lo è a Maria e vi viene narrata la scena dell’annunciazione e del concepimento del Signore (sia pure come profeta e non come Figlio di Dio). Sono gli europei, non i musulmani, a non crederci più.
Perciò – e questa è la seconda considerazione – è vergognosamente strumentale l’indignazione con cui alcuni esponenti della Lega hanno sfruttato l’episodio di Bergamo per rilanciare la loro ostilità preconcetta verso gli immigrati, invitandoli a tornarsene, se non vogliono il presepe, ai loro paesi. Ciò che rende spesso minacciosi gli stranieri ai nostri occhi non è la loro fede, ma il nostro vuoto. Il problema, dunque, è in realtà di noi italiani e, in primo luogo, di quei leghisti che, con la loro falsante interpretazione del cristianesimo, si rivelano sicuramente più lontani dallo spirito del Natale di tanti musulmani.
Sì, abbiamo diritto, a dispetto di tutte le proteste ispirate a una falsa tolleranza, di fare il presepe a scuola. Ma perché esso sia un vero presepe, e non solo un quadretto folkloristico, anche il clima che si respira nel nostro paese dovrebbe intonarsi ad esso. E l’approssimarsi delle feste natalizie dovrebbe ricordarci che colui di cui stiamo per celebrare la nascita, duemila anni fa, un giorno tornerà per chiederci se l’abbiamo accolto quando era solo un povero straniero.