«COME IO HO AMATO VOI, COSÍ AMATEVI ANCHE VOI»
(At 14,21-27; Sal 144; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35)
Qualche domenica addietro, il libro degli Atti degli apostoli ci consegnava una immagine sorprendente, mostrandoci gli Apostoli che uscivano dal Sinedrio lieti di essere stati insultati e flagellati per il nome di Cristo Gesù. Oggi ascoltiamo l’esortazione di Paolo e Barnaba alle nuove comunità cristiane, appena formate in alcune cittadine dell’Asia Minore, che vengono incoraggiate a restare salde nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Davvero interessante notare come queste parole vengono messe tra virgolette, per farci capire che sono proprio quelle pronunciate dai due apostoli e che sono rimaste ben impresse nella memoria dei fedeli. Appare evidente il paradossale, ma inscindibile collegamento tra sofferenza e gioia, quando la sofferenza viene vissuta per il nome di Cristo, a motivo della fedeltà verso di Lui e per non tradire la comunione di amore con Lui.
Il Vangelo di questa domenica ci riporta al momento della conclusione della Cena di Pasqua, l’ultima che Gesù vive con i suoi discepoli, quando annuncia che ormai la sua ora è arrivata, l’ora per cui si era preparato fin dal principio della sua missione pubblica, l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo compiuto pienamente la Sua volontà. Il breve, ma intenso passaggio comincia col notare che Giuda era appena uscito, per inoltrarsi nelle tenebre che già circondavano il suo cuore e il suo spirito, e solo ora Gesù è pronto ad aprire il cuore davanti ai suoi discepoli. Sembra che la presenza di Giuda impedisca a Gesù di fare questo tipo di discorso, perché il suo cuore si è chiuso totalmente all’amore di Gesù e non è in grado di riceverlo e comprenderlo. L’inizio del discorso, che ormai è conosciuto come il testamento di Gesù, lo possiamo dividere in due parti strettamente collegate fra di loro. La prima parte parla di questo momento in cui Gesù si appressa a iniziare il doloroso cammino verso la croce, presentandolo in termini di “glorificazione”. La seconda parte, invece, proclama il “comandamento nuovo” che Gesù consegna ai suoi discepoli.
Il termine “gloria” che Gesù usa in questo contesto, con il relativo verbo “glorificare”, significa manifestazione, rivelazione. Cosa rivela e rende visibile per tutti Gesù? Gesù rende visibile il suo amore incondizionato per il Padre e per i suoi discepoli, per tutti coloro che il Padre ha consegnato nelle sue mani. Il Figlio dell’Uomo viene glorificato perché egli è pronto a dare la sua vita per i suoi amici, senza chiedere nulla in ricambio; ma anche per i suoi nemici, anche per Giuda e per tutti i milioni di Giuda che lungo i secoli non avrebbero riconosciuto in Lui il Figlio di Dio, Colui che è venuto per cingere il grembiule e servire, e che offre volontariamente la sua vita per la salvezza di tutti. Ma in Gesù si manifesta in pienezza l’amore misericordioso del Padre, che è pronto a dare il suo figlio, perché non può tollerare che gli altri figli vadano perduti. Per questo il Padre è glorificato nel Figlio, che diventa il suo dono di amore: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio.
Ci rendiamo conto allora come la gloria diventa la manifestazione dell’amore folle e invincibile di Dio, che si rivela nella vita e soprattutto nella morte in Croce del Figlio Suo. Il misterioso legame tra gloria e umiliazione, tra esaltazione e morte in croce trova la sua chiave nel mistero dell’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre, e di entrambi per l’umanità intera e per ciascun uomo. Ecco perché la rivelazione del nome di Dio è l’amore, perché Dio è Amore. Gesù è consapevole che ormai dovrà lasciare i suoi discepoli. Con un linguaggio di profonda tenerezza li chiama “figliolini miei” e parla come un padre morente si rivolge ai suoi figli per lasciare loro le sue ultime volontà. Usa infatti un tipo di linguaggio che traduce la solennità del momento: «Vi do un comandamento nuovo». Di quale comandamento si tratta? Già nell’antica legge era stato detto di amare il prossimo come se stessi e Gesù lo aveva confermato apertamente legando questo comandamento al comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Dove sta la novità di cui Gesù parla?
La novità sta tutta in quel termine di comparazione: “come”, o meglio, “come io”. Così Gesù fa dono del suo comandamento, perché chi lo vive in pienezza fa rivivere nella sua persona lo stesso amore di Gesù. Oggi Gesù lo ripete per noi: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.» L’amore del cristiano non parte dal suo personale sentimento, dalla sua inclinazione, ma si mette in sintonia con la qualità e il tipo di amore di Gesù stesso che non fa distinzione di persone, tra amico e nemico, che non guarda se uno ricambia con altrettanto amore oppure con l’offesa e il rifiuto. L’amore di Gesù va oltre il puro sentimento e diventa dono incondizionato di se stesso fino alla morte e alla morte di croce. Gesù chiede ai suoi discepoli di poter vivere questo suo stesso amore, perché, nel momento che lo chiede, Egli abilita i suoi discepoli a poterlo vivere e donare. Per questo nella conclusione si limita a dire semplicemente che basta amarsi gli uni gli altri per essere riconosciuti da tutti come suoi discepoli. Semplice a dirsi, non altrettanto a farsi. A noi resta l’interrogativo: riescono gli altri a riconoscere che noi siamo suoi discepoli?
- Pino (Giuseppe Licciardi)