Una beatitudine improbabile
IV domenica del tempo ordinario
Mt 5,1-12
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi”.
Una pagina che incanta e sconvolge, che riempie il cuore di gioia e la mente di interrogativi profondi. Una pagina così semplice da nascondere un segreto arcano che pare indecifrabile. Che dice tutto e che nasconde molto di più.
Una pagina che però fa venire in mente una vecchia poesia di Jorge Luis Borges che recita così: “C’è tanta solitudine in quell’oro./La luna delle notti/non è la luna che/il primo Abramo vide./I lunghi secoli dell’umano vegliare/l’han colmata d’antico pianto./Guardala./È il tuo specchio”. Un invito, quello del poeta argentino, a guardare le cose (in questo caso la luna) così come “i lunghi secoli dell’umano vegliare” le hanno ridotte e a ritrovare in quelle cose, così “colmate”, l’immagine di noi stessi.
La pagina di Matteo è proprio questo specchio di fronte al quale dobbiamo prima di tutto chiederci: come l’abbiamo ridotta? Certamente pesano su di essa fiumi e fiumi d’inchiostro, un mare di interpretazioni più o meno poetiche, ma soprattutto molteplici stratificazioni culturali che l’hanno ridotta alla proclamazione di una beatitudine improbabile. Una beatitudine cioè che, se tutto va per il verso giusto, probabilmente si realizzerà in paradiso. Una felicità che, se più o meno facciamo i bravi in questo mondo, sperimenteremo in cielo. Perché probabilmente c’è un cielo, dove probabilmente c’è un Dio, in cui probabilmente crediamo, e che probabilmente realizzerà queste cose che per ora promette soltanto.
Ma oggi, in questo mondo, in questa epoca, questa beatitudine rimane improbabile. Ecco come “i lunghi secoli dell’umano vegliare” hanno ridotto questa pagina. L’umano vegliare infatti ci ha consegnato la sacrosanta verità che sono i ricchi, gli arroganti, i potenti, coloro che non piangono mai, coloro che hanno successo ad essere veramente beati. E se le belle prediche ricoprono i nostri pensieri di apparenti dolcezze, i nostri pensieri più intimi contraddicono le nostre stesse parole.
Se questo è lo specchio che ci siamo costruiti dobbiamo porci una seconda domanda: cosa appare da questo specchio? Appare una persona dagli occhi troppo imbevuti di terra. Una persona dal cuore che batte al ritmo frenetico di una routine alienante. Una persona la cui mente è una fucina di formule matematiche. Insomma una persona dagli occhi, dal cuore, e dalla mente troppo poco divini. Ma non è forse vero che il Figlio di Dio si è fatto uomo per renderci più divini? Non è forse vero che morendo sulla croce ha unito il cielo e la terra per rendere la terra più profumata di cielo?
Allora se questo specchio ci consegna una beatitudine improbabile vuol dire che a specchiarsi è una persona che probabilmente ha ancora bisogno di Dio e della sua salvezza.
(don Michele Pace)