«MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA? »
(Is 22,19-23; Sal 137; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20)
Continuando la lettura di Matteo troviamo Gesù ancora fuori dalla Giudea, nelle vicinanze di Cesarea di Filippo, una cittadina di stile ellenistico-romano dedicata dal Tetrarca Filippo, figlio di Erode, all’imperatore Tiberio. In questo particolare momento, Gesù si tiene a distanza dai luoghi che abitualmente frequenta, a motivo della ostilità delle autorità religiose nei suoi confronti. Ma anche questa pausa forzata serve a Gesù per mettere a punto le idee dei suoi discepoli e verificare cosa essi avevano appreso fino a quel momento riguardo alla sua persona. Egli affronta l’argomento, in se molto delicato ed essenziale, con una prima domanda che serve a mettere i suoi discepoli a proprio agio, in quanto chiede loro cosa pensa di Lui la gente. In effetti la persona di Gesù non passava inosservata e la gente parlava molto di Lui, a proposito e a sproposito, in modo favorevole ed entusiasta ed in modo critico o del tutto negativo. A questa prima domanda i discepoli non hanno difficoltà a rispondere, dicendo quello che la gente del popolo, a cui essi erano molto vicini, pensava di Gesù.
In fondo la gente si era fatta di Gesù una idea molto positiva, se pensiamo che ha paragonato Gesù a Giovanni Battista, ad Elia a Geremia o ad un antico profeta. Giovanni evoca la fermezza della missione, perché non è una canna sbattuta dal vento o uno che si da alla bella vita. Elia è, considerato l’indomito difensore della pura fede nell’unico Dio, al cui servizio si è posto senza riserve fino a rischiare la persecuzione e la morte. Geremia si presenta come il contestatore della religione di tipo magico rituale, che esime il fedele dal coinvolgimento personale, ma che, al contrario, esige l’adesione amorevole del fedele che serve Dio mosso interiormente dal suo Spirito. E la menzione generica degli altri profeti ci dice come la gente vede in Gesù qualcuno che finalmente fa sentire molto forte l’eco della voce stessa di Dio e non è un semplice ripetitore di dottrine sapute e risapute che non toccano più il cuore. Nella persona di Gesù la gente sente la presenza stessa di Dio, ad un tempo piena di autorità e di tenerezza, ed il suo messaggio fa respirare la freschezza e la novità della Parola di Dio che continua ad invitare il popolo a seguirlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze, osservando i suoi comandamenti.
A questo punto Gesù da una sterzata improvvisa e rivolge loro la domanda in forma diretta: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Esprimere in maniera distaccata o anche convinta il parere degli altri è una cosa, ma esporsi in prima persona è una cosa del tutto diversa. E Gesù chiede appunto che i suoi amici più intimi cerchino di tradurre in parole chi Egli sia per loro, quale importanza abbia nella loro vita, se senza di Lui possano andare avanti lo stesso oppure la loro vita smarrisca il suo orientamento e perda senso. Se stanno impegnando la loro intera vita per Lui, è giusto che sappiano almeno per chi la stanno giocando e se ne valga la pena. In questo momento di sosta della sua missione itinerante, e preparandosi ad affrontare il cammino che lo porterà alla croce, Gesù chiede ai discepoli di prendere viva consapevolezza della sequela che hanno affrontato e che finora li ha visti sempre al suo fianco. Vuole discepoli che condividano il suo progetto e la sua missione e siano capaci di andare con Lui fino in fondo. La sosta a Cesarea di Filippo non è un momento di forzato relax, ma è un momento forte di recupero delle motivazioni profonde della sequela.
Questa domanda a bruciapelo non riguarda solo i dodici, ma riguarda ciascuno di noi senza eccezione. Gesù continua ad interpellarci personalmente chiedendoci ad uno ad uno: “chi sono io per te?”. E non possiamo contentarci di risposte generiche e vaghe, o del tipo delle formule imparate al catechismo. É una domanda necessaria per noi, perché non possiamo contentarci di un’appartenenza sociologica e di tipo puramente culturale alla nostra fede, soprattutto oggi, confrontandoci con le migliaia di credenti e cattolici che a motivo della loro appartenenza religiosa perdono la casa, la patria, la famiglia, i beni e la loro stessa vita. La fede in Gesù non può limitarsi ad essere una convinzione dottrinale di tipo solo intellettuale, perché coinvolge la nostra vita. É giusto che ci diamo ragione della nostra fede e ci lasciamo coinvolgere direttamente con la persona di Gesù, che ci chiede: “Chi sono io per te? Quanto conto nella tua vita? Quale peso ho nelle tue scelte quotidiane, nelle tue relazioni, nel tuo lavoro?”. Chissà se ogni tanto ci chiediamo: cosa farebbe Gesù al mio posto? Sarebbe d’accordo con quello che io penso, dico e faccio?
Pietro, di slancio, da la sua risposta: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!” e Gesù fa capire a Simone, figlio di Giovanni, che la sua splendida e sorprendente risposta non viene da lui, ma gli è stata suggerita dal Padre celeste. Per questo Gesù lo chiama beato, perché non si è lasciato guidare dalla sua umanità, dai suoi sentimenti ed emozioni, ma ha lasciato spazio alla voce interiore dello Spirito che lo ha guidato alla verità. A questo punto però Gesù rivela a Pietro chi è lui nella mente e nel pensiero di Gesù: “Tu sei Pietro, e su questa Pietra edificherò la mia chiesa”, con tutto il resto che segue. Ma mi preme a questo punto sottolineare come, riconoscendo ed accettando la vera identità di Gesù, Pietro scopre senza volerlo la sua profonda identità, chi lui è nel progetto di Dio. Giustamente il Concilio Vaticano II ci suggerisce che quanto più conosciamo Gesù ed entriamo nella sua intimità, tanto più noi conosciamo noi stessi, perché Gesù svela noi a noi stessi. Più conosciamo chi è Gesù per noi e più conosciamo chi siamo noi, per noi stessi e per Lui.
Giuseppe Licciardi (Padre Pino)