Corpus Domini
«COLUI CHE MANGIA ME, VIVRA’ PER ME»
(Dt 8,2-3.14-16; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58)
Due verbi – speculari l’uno all’altro – reggono le esortazioni accorate che Dio rivolge al suo popolo per motivarlo ad essergli fedele ed a riconoscerlo sempre come suo unico Signore e Salvatore: “Ricordati” e “Non dimenticare”. Sono due verbi che parlano con molta forza al cuore, perché fanno riferimento ad una storia condivisa, ad una relazione intima vissuta dalla due parti, in questo caso Dio ed il suo popolo. Entrambi i verbi invitano ad un ritorno salutare alla radici, per attingervi nuove forze ed insospettate energie per ridare vita e far crescere questa relazione, che rischia continuamente di essere cancellata dalla memoria. Il ricordare suggerisce l’idea di far passare nuovamente attraverso il cuore, per tornare a gustare i momenti fondanti di questa relazione di amore, in modo da far risorgere il vivo desiderio di rivivere in maniera sempre nuova ed esaltante l’originaria esperienza che ha cambiato propria esistenza. L’invito a non dimenticare vuole rafforzare l’impegno e la volontà a non far perdere tutto il tesoro di grazie e di esperienze che ti hanno formato e ti hanno consentito di essere quello che sei. Perdere la memoria significa impoverire ed intristire la propria esperienza di vita.
Ricordare vuol dire anche impegnarsi a non smarrire la propria identità, a non perdere di vista i punti di riferimento che danno senso alla propria vita. Ecco perché Dio passa in rassegna i momenti più forti e drammatici della storia del suo popolo, perché il ricordo di essi lo aiuti a riflettere sul ruolo che Dio ha avuto in essa e come, senza Dio, il popolo d’Israele non avrebbe avuto alcuna storia. Dio ha fatto uscire quel popolo dalla sua condizione servile, gli ha fatto dono dei suoi comandamenti, lo ha messo alla prova per saggiare la sua fedeltà e la qualità del suo amore, lo ha guidato con mano ferma e provvida nel difficile cammino attraverso il deserto, lo ha nutrito giorno per giorno con la manna, lo ha liberato dai morsi velenosi dei serpenti, ha fatto sgorgare per lui acqua viva dalla roccia per poterlo dissetare. Tutto questo ha fatto il Signore ed ognuno di questi gesti parla del suo amore tenero, fedele ed assolutamente gratuito nei confronti del suo popolo. Ha ben ragione il salmista, contemplando tutti questi fatti, ad esclamare con stupore pieno di commozione: “Questo non l’ha fatto con nessun altro popolo!”.
Facendo riferimento a questi episodi, e soprattutto al dono del pane del cielo, la manna, con cui Dio ha nutrito per molti anni il suo popolo nel deserto, Gesù parla del nuovo pane vivo che il Padre suo vuole donare al nuovo popolo che si riunisce attorno a Lui, nel suo nome. E dopo aver detto che questo pane che Lui vuole donare è di una natura tale che non perisce e che anzi da la vita eterna, Gesù annuncia solennemente: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno”. Parole che sconvolgono i suoi ascoltatori, soprattutto quando egli, in maniera stupefacente, afferma che quel pane è il suo stesso corpo che viene donato come nutrimento. Anzi usa una maniera molto cruda e realistica di esprimersi, perché parla della sua “carne” che viene data come cibo. Tanto che nasce una forte polemica a proposito delle sue parole, che suonano inaccettabili per una persona sana di mente. Ma Gesù, non solo ripete le sue parole ma vi insiste col proposito di sottolineare che, non solo che “la sua carne è vero cibo e il suo sangue vera bevanda”, ma che “mangiare la sua carne e bere il suo sangue” è la condizione per avere la vita eterna ed aspirare alla risurrezione nell’ultimo giorno.
Nonostante la reazione indignata di molti dei suoi ascoltatori e discepoli, che da quel momento hanno deciso di non volerlo più seguire, Gesù ribadisce il suo invito che diventa progetto di vita per i suoi discepoli e per la Chiesa. Troviamo conferma nella testimonianza dell’Apostolo Paolo che scrive ai fedeli di Corinto e che di fatto è il primo scritto che ci parla esplicitamente dell’eucaristia che veniva celebrata abitualmente dai cristiani. Apprendiamo che la celebrazione eucaristica non solo è una prassi comune in tutte le comunità cristiane, ma che da essa scaturisce immediatamente una fondamentale regola di vita per la Chiesa. Paolo afferma con convinzione che il condividere quel calice e quel pane della benedizione ci mette in comunione con il corpo ed il sangue di Cristo. Da questo scaturisce la conclusione che, poiché tutti partecipiamo all’unico pane, tutti, pur essendo molti, formiamo un solo corpo. Una intuizione grandiosa, che rispecchia fedelmente la volontà di Gesù, il quale, con la parola e ed i sacramenti, -in questo contesto specifico, l’Eucaristia – edifica la sua chiesa che è il suo corpo, che è uno e non può essere diviso. Potente richiamo alla esigenza vitale della comunione che deve esistere tra quanti condividono lo stesso corpo e sangue, se non si vuole tradire e rinnegare di fatto lo stesso Cristo che viene ricevuto.
Ma Gesù sottolinea un aspetto irrinunciabile di questa intima comunione che si viene a stabilire tra Lui e quanti si nutrono del suo corpo e del suo sangue. Non basta il semplice gesto materiale di mangiare il suo corpo e bere il suo sangue, perché questo, da solo, rimane una pura ritualità fine a se stessa. Gesù spinge alle estreme conseguenze il significato profondo ed autentico di quel gesto, che comporta entrare in una profonda ed intima comunione con Lui. “Colui che mangia di me, vivrà per me”. Non c’è posto per giochi di parole e finzioni. Vivere l’eucaristia diventa gesto vero e pieno solo nella misura in cui ogni singolo fedele si lascia coinvolgere nella vita di Gesù e rischia di vivere in Lui e per Lui come Lui è vissuto totalmente per il Padre suo, rimanendo costantemente nel suo amore. Per chi lo riceve, Gesù diventa la sua ragione di vita, oppure non ha alcun senso e si riduce ad un vuoto rito. O ti impegni a vivere per Gesù, o, altrimenti, è meglio che non lo ricevi.
Giuseppe Licciardi (P. Pino)