I maschi calzano snikers colorate o fluorescenti, si calano a guscio sulle teste rasate ai lati i cappucci delle felpe sportive o gli inseparabili cappellini con visiera, indossano immancabili jeans ultra slim che lasciano scoperte le caviglie. Le femmine ostentano unghie curatissime, multicolor e decorate a motivi floreali, con le quali riescono pure a saettare agilmente sulle tastiere touch dei loro smartphone, schiariscono a metà i lunghi capelli lisci, ondeggiano su tacchi vertiginosi calzati in alternativa a stivaletti con le borchie dorate.
Tutti indistintamente presentano nelle orbite due grandi laghi, abissi marini, tappeti di stelle, cristalli in trasparenza… Più o meno sono così gli adolescenti che da circa vent’anni incontro giorno per giorno nelle aule di un istituto superiore e che, seduti in un cantuccio della mente o rannicchiati in un antro del cuore, porto a spasso con me ogni giorno, ovunque vada. Il pensiero di loro, ormai, fa parte di me: non c’è film, spettacolo, video o quadro che io abbia visto, non c’è libro, racconto o poesia che io abbia letto, non c’è canzone, musica o sinfonia che io abbia ascoltato, che non desideri far loro vedere, leggere, ascoltare, per renderli partecipi di un’emozione o di una riflessione da condividere insieme.
Mentre gli parlo seduta alla cattedra o deambulando tra i banchi per mantenere desta l’attenzione, incrocio i loro sguardi, telecamere a infrarossi puntate su di me: spiano il mio modo di osservarli, si meravigliano della mia capacità di mandare a memoria all’istante i loro nomi di battesimo e nick name, fotografano il mio gesto di impugnare la penna, colgono l’ironia – a volte scanzonata a volte pungente – con la quale accolgo i soliti ritardatari, registrano intercalari e parole a cui sono inconsapevolmente affezionata. Apparentemente incuranti di tutto e superficiali, distratti, annoiati e impermeabili al sapere avvertono, prima ancora che io stessa me ne renda conto, di che pasta è fatto il mio umore della giornata. Lo capisco dal loro comportamento: rilassati, scanzonati, arditi nello sfidarmi con le provocazioni, se dentro il mio cuore c’è gioia; più silenziosi, forzatamente attenti, rigidi nella postura, quando invece colgono anche il mio più piccolo turbamento.
Poi ci sono le domande. Non quelle di carattere didattico, no. Le curiosità sulla mia persona, sul mio vissuto, su mio figlio. Se abbocco all’amo – sono ben consapevole che il quesito è funzionale allo scopo di “perdere tempo” e magari farla franca una volta di più – l’attenzione è assicurata: partecipano tutti, anche i più timidi, anche quelli che “nulla li smuove”, persino i più assidui frequentatori dei corridoi e dei bagni della scuola restano seduti al loro posto, con le orecchie drizzate. E allora, con estrema sincerità, gli parlo delle mie passioni giovanili, ripercorro con la mente le maratone di studio “matto e disperatissimo” in vista di un esame ampiamente ripagate dalla gioia del traguardo raggiunto, li metto a parte del mio essere stata un’alunna timida ma appassionata, curiosa e noncurante del giudizio altrui, ironizzo sui miei piccoli e grandi difetti, chioso un evento di attualità, mi commuovo ricordando chi è stato il mio faro negli anni fondamentali della formazione… Credo siano proprio quei momenti, quegli attimi magici che a volte riescono ad ovattare anche il suono della campanella, gli istanti in cui si compie il miracolo dell'”educare”: un “trarre fuori” promuovendo, attraverso l’insegnamento e l’esempio, “lo sviluppo delle facoltà intellettuali, estetiche, e delle qualità morali di una persona”, come recita il vocabolario Treccani.
Paola Cinque, insegnante