(Mimmo Sinagra) Guardare negli occhi una persona è forse una delle esperienze che possono cambiare il cuore dell’uomo. L’ho fatta, ieri pomeriggio, al Centro Astalli di Palermo, ove mi reco due volte al mese per fare ambulatorio, come medico volontario, per gli extracomunitari che vi afferiscono. Di solito, ricorrono alle cure mediche persone di tutte le età che vivono in città e che vi lavorano stabilmente. Un lavoro gratificante, di aiuto e di sostegno, ma tutto sommato routinario. Ieri, invece, recandomi al Centro per il mio turno di lavoro, ricevo la telefonata della collega coordinatrice del servizio. “Sono sbarcate stamattina a Palermo centinaia di persone, provenienti dai “barconi della morte”, e alcune di esse hanno cercato assistenza nel nostro Centro. Sospendiamo ogni attività consueta e dedichiamoci a loro”, mi dice. Appena arrivato, ho trovato una quarantina di persone, provenienti dall’Eritrea, ove la guerra uccide e affama, dall’espressione indimenticabile, un misto di sofferenza, paura, abbandono: gli occhi infossati, le guance scavate, le gambe malferme, la pelle rinsecchita; allocati tutti compostamente nel cortile del Centro. In questi momenti si raggiunge la perfetta identificazione fra l’essere medico e l’essere solidali, partecipi, coinvolti in pieno dalla sofferenza dell’uomo, della donna, del ragazzo, del bambino che ci sta di fronte. E lo spirito organizzativo di tutti gli operatori si fonde in un accordo perfetto per dare una mano a “questo” prossimo. Alcuni volontari formiscono cibo ed acqua, altri cominciano ad attivare le docce, altri al “bazar” provvedono ad abiti puliti. Io, con l’aiuto di un giovane eritreo del Centro che mi fa da interprete, comincio a visitare. Pustole e lesioni della pelle prodotte dalla macerazione cronica, diarree da alterazioni microbiche intestinali, sindromi da raffreddamento per le notti all’adiaccio nei barconi, ferite infette causate chissà da quale evento traumatico, cicatrici antiche forse in relazione a torture subite… è un avanti e indietro, con la mia collega che mi ha nel frattempo raggiunto, a procurare farmaci, creme, talchi, dopo l’esortazione a fare una doccia che finalmente ripulisca e ristori.
Nonostante i loro bisogni impellenti, di tutti i tipi, fanno la fila ordinatamente, per le docce, per i vestiti, per il cibo, per la visita medica (penso alle pseudo-file e alle litigate dei palermitani).
Con qualcuno si scambia qualche parola in più, in inglese, si chiede la loro età, per lo più giovane, il loro lavoro in Africa: meccanico, studente, insegnante di informatica (Salvini, ma non sono tutti “straccioni”? Non vengono qui per togliere il pane agli italiani?). Ancora, una giovane madre con tre bambini, dal volto triste perché il marito è rimasto in Africa, un giovane uomo che alza gli occhi al cielo in segno di confidenza in Dio per il suo futuro… Si affaccia qualche sorriso.
Sono state quasi quattro ore intense, ma serene, nonostante le brutture viste ed ascoltate. È già quasi buio, molti sono già andati via, verso la Stazione ove sperano di prendere un treno per Roma o Milano, forse comprando a 300-400 euro dei biglietti ferroviari contraffatti da palermitani furbi, come mi hanno informato…
Le donne e i bambini, ed alcuni giovani, rimangono ancora per un po’. Confidano in un ulteriore pasto serale; altri si attardano alle docce o al bazar.
Due di loro, che necessiterebbero di ricovero ospedaliero, vanno via lo stesso, prendendo i farmaci di cui li abbiamo forniti, ma preferendo comunque partire.
Abbiamo finito l’assistenza medica. Ce ne andiamo pensierosi, contenti comunque di essere stati in qualche modo utili.
Una considerazione mi s’affaccia: quei “beni fondamentali” e “servizi pubblici” elencati da Papa Francesco come elementi fondamentali della convivenza umana: terra, lavoro, casa, salute, educazione, sicurezza e ambiente non possono essere perseguiti da soli, e per se stessi, ma condivisi. La tua salute, il tuo lavoro diventano la mia sicurezza, la mia educazione il tuo star bene, il nostro ambiente la nostra terra. Sono beni intercambiabili e da globalizzare. Promuovendo l’uno, per tutti, si promuove l’altro, per tutti. Se la mia terra deve restare la mia terra, la mia sicurezza la mia sicurezza, la tua casa la tua casa, si ingenerano e proliferano la diffidenza, la violenza e la sopraffazione, la guerra, le stragi, i morti in mare.
E in ultimo: finché la politica non “guarda negli occhi” coloro di cui si occupa, non regge lo sguardo di chi soffre, non sarà mai una buona politica. Tutti gli uomini che ascoltano la propria coscienza, ed i cristiani in particolare, dovrebbero essere coloro che “profetizzano” questo sguardo.