Il 19 luglio 1992 in un attentato mafioso perdevano la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Oggi ricorre l’anniversario di quella strage, uno dei tanti – purtroppo – eventi traumatici della storia del nostro Paese, preceduto e seguito da altre stragi e da innumerevoli delitti di mafia in cui caddero magistrati, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti. Non si può certo dire, quindi, che l’assassinio di Paolo Borsellino sia stato un caso isolato. Esso rappresentò il culmine della tensione tra la mafia e lo Stato italiano, ma fu anche la manifestazione di una società in piena crisi etica e morale. Da lì a poco sarebbe scoppiato lo scandalo del finanziamento illegale dei partiti (tangentopoli), portato alla luce dall’inchiesta denominata “mani pulite”.
Ecco perché la commemorazione della strage di via D’Amelio non chiama in causa soltanto le responsabilità istituzionali, ma anche quelle sociali, civili e culturali. Diceva Borsellino: “La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
La mafia trova terreno fertile e si diffonde laddove manca una rete sociale e culturale forte, intessuta da valori e principi di libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà. In questo terreno di coltura attecchiscono facilmente criminalità, corruzione, malaffare… e, comunque, molteplici disvalori. Da qui si generano quei rapporti collusivi con le amministrazioni pubbliche, che inquinano la politica e indeboliscono le istituzioni. Il tutto in un contesto in cui risulta ancora non adeguato l’impegno da parte di una società civile frammentata e conflittuale, anch’essa – per tanti versi – inquinata dal compromesso etico e morale.
La criminalità organizzata affonda le proprie radici nella carenza di una solida cultura della legalità e del bene comune.
Cosa si è fatto di realmente incisivo e duraturo in questi anni, come e quanto si è investito per costruire un tessuto sociale “sano”? L’interrogativo interpella tutti, nessuno escluso: dalle istituzioni politiche alla scuola, alle parrocchie; dalle associazioni alle famiglie, ai singoli educatori. Quale esempio viene alle nuove generazioni da coloro che, avendo responsabilità pubbliche, dimostrano scarso rispetto delle istituzioni e dell’etica pubblica? Da quei partiti che al loro interno presentano personaggi discutibili? Da quegli adulti che – sui social si strappano le vesti e pontificano contro tutto e tutti e nel concreto ricorrono ad ogni mezzo per perseguire un proprio interesse personale?
Commemorare vuol dire tradurre quotidianamente la memoria in impegno sociale, in esercizio della cittadinanza e di partecipazione al bene comune, sostenuti da convinte motivazioni etiche e scelte morali. Sono questi gli antidoti che garantiscono la libertà delle persone, la giustizia degli uomini, preservano la democrazia dei popoli, promuovono la crescita civile della società.
Il tutto sostenuto da percorsi educativi capaci di sottrarre le nuove generazioni alla barbarie culturale di questi ultimi decenni, in cui i miti di veline, calciatori, modelle, tronisti, potenti in carriera, squallidi e impenitenti personaggi pubblici… occupano l’orizzonte ideale di tanti giovani e adulti. Bisogna inaugurare strade e sentieri alternativi in cui i ragazzi abbiano l’opportunità di sconfiggere lo stereotipo del furbo, tanto in voga nella società italiana, che va a braccetto col disimpegno e il riflusso nel privato, di aprire la mente e lo sguardo a prospettive nuove, grazie alle quali respirare sogni, idee, progetti alimentati da forti passioni civili e culturali, da ampi orizzonti di senso.
Matteo Scirè