(di Mimmo Sinagra) L’identificazione con le vittime di violenza ha recentemente coinvolto molti di noi. “Io sono Charlie”, adesso “Io sono Aldo Naro” hanno invaso ed invadono le strade e le bacheche di Facebook. Ciò mi induce ad una riflessione: fino a che punto sono realmente coinvolto, sono veramente Charlie o Aldo Naro? Fino a che punto, adesso, non diventa una moda scrivere di “essere” una persona? È la mia vita ad identificarsi con essa, o il cartellone che porto, o la foto del profilo che mostro?
La vera partecipazione è la condivisione. E la condivisione è con-passione, empatia profonda.
È prima di tutto memoria di chi è morto per una causa, o apparentemente senza causa: insomma, di chi è morto “innocente”. Poi è disponibilità all’impegno, al “pagare di persona”, al “morire” per il perseguimento di un obiettivo di giustizia e di bene. Poi è azione concreta perché la persona in questione non sia morta invano. Poi è speranza in un futuro che non contempli simili sacrifici.
Tanti sono i simboli di tali testimonianze, di tali “martirî”. Il primo che mi viene in mente è la foto di Che Guevara, appena ucciso, per il suo popolo; ma anche i morti delle fosse Ardeatine, dei lager, delle foibe, dei gulag.
Ma quello che investe tutti, per l’universalità del suo sacrificio, è il “crocifisso”, con la “c” minuscola; non primariamente il Cristo, ma l’uomo. Non la “Croce” di Cristo, ma l’uomo universale innocente condannato ingiustamente a morte, inchiodato alla croce. Croce che in questa prospettiva assume la veste di “patibolo”, non di simbolo di un’appartenenza religiosa, dell’affermazione di una superiorità. Non la croce, insomma, posta sullo scudo del crociato, ma quella fatta di legno grezzo, da cui pende un uomo nudo e torturato. Un crocifisso “laico”, spogliato da ogni orpello, da ogni pretesa di primato, da ogni appartenenza di razza o di cultura, che per il cristiano naturalmente riveste un immenso supplemento di significato, ma che per tutti è il riferimento di un comune sentire. Questo è il crocifisso che mi piace appeso negli uffici e nelle scuole: quello che parla a tutti di “sacrificio”. Non la croce dei leghisti, da contrapporre alla mezzaluna o alla stella di Davide, ma il crocifisso che diventa l’egiziano copto massacrato dai fanatici dell’ISIS, il migrante annegato in mare, il ragazzo sul selciato di una discoteca, in cui tutti possano riconoscersi.
Mai come in questa Quaresima appena iniziata la cronaca ci offre tanti “crocifissi”: nella nostra Sicilia, nella nostra Italia, nel nostro mondo. Vittime di una violenza atroce e immotivata (Aldo Naro), vittime di scelte politiche forse scriteriate e della carente organizzazione sanitaria (Nicole), vittime di femminicidio (tante, troppe per essere enumerate tutte), vittime della fame, della violenza e dello sfruttamento (migranti), vittime degli eccidi dettati da fanatismo cieco (ISIS) e da sete di potere economico prima che politico (questione russo-ucraina). In questo turbinio di violenza che sembra occupare quasi totalmente interi telegiornali, sgomenti ci si chiede se dobbiamo continuare ad ascoltare queste vicende, se dobbiamo tapparci le orecchie o spegnere il televisore, o se possa esserci la speranza di un ritorno alla ragione e alla convivenza nella pace.