«Per Amore del Mio Popolo non Tacerò»
Un Martirio per una fede che ama la terra
(Vincenzo Lumia) Perché un sacerdote muore sotto i colpi implacabili di una mano omicida, assoldata dalla criminalità organizzata?
Perché boss e gregari camorristi e mafiosi si dichiarano credenti e, pur latitanti, ingaggiano preti per “esclusivi” uffici religiosi?
Cosa fa la differenza tra un prete ammazzato per ordine di potenti clan e un prete che ritiene doverosa una cappellania a servizio degli stessi?
Sono questi alcuni interrogativi sui quali tenteremo di riflettere nell’anniversario dell’assassinio di Don Peppe Diana per non dimenticare e, soprattutto, per non far mancare la nostra parte di educatori e di laici cristiani a quel progetto di rinnovamento morale, civile e politico di cui la società odierna ha tanto bisogno.
“È lei don Peppe”? Quasi la stessa domanda a Don Diana e a Don Puglisi e – subito dopo – la morte, puntuale e inesorabile, attraverso l’arma fatta esplodere con spietata determinazione dal killer di turno.
Una domanda per una certezza: proprio lui, proprio loro i proiettili dovevano colpire perché non è il fatto di essere preti, ma il modo di esserlo che ha determinato per entrambi la sentenza di morte.
Dove sta “l’anomalia”? Quale “colpa” può commettere un prete per meritarsi una condanna e una esecuzione, secondo i classici rituali della violenza mafiosa?
C’è un modo di essere e fare il prete che piace tanto a chi delinque, al camorrista, al mafioso, al potente: è il prete che sa ben distinguere e, quindi, mantenere sempre e comunque separati parrocchia e territorio, terra e cielo, fede e vita, giustizia umana e divina, elemosina e diritti, annuncio evangelico e promozione umana.
Per un prete così il Vangelo va detto, recitato fuori dallo spazio e dal tempo, serve a consolare, dare rassegnazione. Il rapporto con Dio va ridotto ad un fatto intimistico e i doveri religiosi a pratiche cultuali e devozionistiche.
Il Dio che annuncia non chiede conto di Abele, accetta laute offerte, anche se le mani di chi le offre potrebbero essere sporche di sangue innocente; tace e si accontenta delle feste patronali, dei giochi d’artificio, degli ori sui simulacri e può essere pregato nelle cappelle private.
Un prete così è l’ideale: quanto meno merita di essere lasciato in pace, perché non fa danno, mantiene lo status quo e ne è funzionale; anzi, in certi casi, è degno di essere promosso a cappellano di boss e clan.
C’è un tipo di prete – invece – che fa diventare il Vangelo vita, lo traduce nel quotidiano della sua esistenza, lo annuncia e lo spiega facendo costante riferimento alle situazioni concrete, alle vicende storiche; aiuta le persone, i giovani soprattutto, ad aprire gli occhi, a comprendere cause e responsabilità.
Annuncia il Dio di Gesù Cristo, che si incarna e muore per amore, professa ed annuncia una fede che ama la terra, che condanna i soprusi, che invoca dignità e giustizia, che affranca dal bisogno, fa alzare la testa, inquieta ed impegna.
Un prete così, con la sua azione pastorale, innesca processi di consapevolezza, sviluppa senso critico, crea comunità, chiede scuole, servizi pubblici, diritti per tutti e denuncia i privilegi dei pochi, i tanti egoismi e le sopraffazioni, le miserie morali e materiali.
Dimostra che il Vangelo va incarnato, vissuto, coniugato con la vita, raccoglie il lamento delle creature umiliate e offese, si fa voce di chi non ha voce e chiama ciascuno,per nome, alle proprie responsabilità.
Sa essere educatore, profeta; proclama che il Vangelo è per l’oggi, per la terra, per questa vita; mette insieme fedeltà a Dio e agli uomini, aiuta a riconosce già ora i germi del regno e lavora perché in questo mondo se ne colgano i segni, si sviluppi la speranza, si celebri l’amore nella pace e nella giustizia.
Ma un Vangelo così, un prete così, sono un pericolo, rischiano di far saltare tutto, a Casal di Principe in provincia di Caserta, come a Palermo, come in qualunque altra parte del globo.
Destabilizzano un sistema collaudato di malaffare, di oppressione, di violenza, di sottomissione, di omertà.
Inficiano il teorema del quieto vivere e del convivere con la criminalità organizzata, e allora… è bene che qualcuno muoia per la salvaguardia di un “certo” ordine costituito: alle ore 7,20 del 19 marzo 1994 Don Peppe Diana viene ammazzato, mentre stava per celebrare la messa nel giorno del suo onomastico, aveva 36 anni.
“Prete di strada” è stato definito Don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso il 19 marzo del 1994 dalla camorra. Prete di strada perché con la sua vita ordinaria si era sforzato di celebrare il mistero dell’incarnazione: aveva scelto, cioè, di stare in mezzo alla gente, al servizio della sua comunità, facendosi carico dei tanti problemi presenti nel territorio.
Don Peppe, era nato il 4 luglio 1958, presa la decisione di diventare sacerdote, era entrato nel Seminario Vescovile di Aversa, vi frequentò le scuole medie e il Liceo per poi studiare teologia al Seminario di Posillipo fino al diploma in Teologia Biblica.
Conseguì anche la laurea in Storia e Filosofia e nel marzo ’82 venne ordinato sacerdote.
Dopo l’incarico di segretario particolare del vescovo e di educatore e padre spirituale dell’AGESCI, nel 1989 era stato nominato Parroco della Parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe, dove è stato assassinato.
A dieci anni di distanza, grazie soprattutto alla tenacia di pochi, amici e familiari, anche in sede giudiziaria, si è iniziato a ricomporre il mosaico delle tessere volte a ristabilire verità e giustizia, e alcune iniziative nel corso di questi anni hanno cominciato a rendere testimonianza al valore e al coraggio di questo uomo Dio: la Medaglia d’oro al valor civile concessa dall’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro; l’intitolazione della Scuola Elementare di Casal di Principe, della Fondazione antiusura di Caserta e di due strade, una a Catania e una a Locri…
L’azione pastorale, svolta soprattutto fra i giovani, gli aveva fatto assumere la determinazione di lottare a viso aperto il male che impediva l’affermazione della dignità umana e cristiana nella sua terra e questo male lo aveva individuato nella criminalità organizzata e nei suoi loschi traffici: la droga, l’illegalità, il malaffare, la corruzione, la violenza omicida…
Una lotta condotta con coraggio e spirito libero con le armi proprie del sacerdote, dell’educatore: la formazione delle coscienze, l’evangelizzazione, il richiamo di tutti alle responsabilità, la denuncia.
Aveva cercato in tutti i modi di coinvolgere in questa lotta la gente, per renderla protagonista di un percorso di liberazione, di affrancamento, di riscatto e si era impegnato perchè la comunità ecclesiale tutta, a cominciare dai suoi pastori, sentisse fortemente l’esigenza di un annuncio evangelico incarnato.
Un segno forte in questa direzione è stato il documento diffuso a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e nella zona aversana da Don Peppino Diana e dai parroci della foranìa di Casal di Principe: «Per amore del mio popolo».
Ed è proprio l’aver infranto la consegna del silenzio, dell’omertà che ha segnato la condanna a morte di don Peppe.
Un omicidio che alla camorra non è bastato perchè l’azione di questo prete aveva innescato un processo di consapevolezza e di assunzione di responsabilità in molte persone, che la morte non era riuscita a fermare.
Ed ecco allora che il plotone di esecuzione torna a sparare: stavolta sono le armi della calunnia, della diffamazione, delle tonnellate di fango da gettare sulla figura e la memoria di don Peppe, tramite una campagna di stampa orchestrata grazie alla complicità di soggetti forti, conniventi con cosche e boss, fermamente intenzionati a far ripiombare nella rassegnazione e nel silenzio chi aveva cercato di alzare la testa.
Ma sono soprattutto le scelte di vita, gli impegni dei singoli e degli uomini delle istituzioni, i percorsi educativi, culturali e politici che continuano, nel quotidiano, a diffondere i valori di speranza, libertà, pace, giustizia per i quali don Diana non ha esitato a dare la vita.