ILARIA ALPI e MIRAN HROVATIN, amore per la ricerca della verità.
– Un ricordo nel 25° anniversario della loro uccisione –
Nei primi anni ’90 la Somalia è segnata da una guerra feroce tra bande: la sanguinosa lotta tra Aidid e Ali Mahdi riduce allo stremo la popolazione e rende drammatiche le già critiche e preoccupanti condizioni politiche, economiche, sociali e civili del Paese africano. L’ONU decide di intervenire con la missione “Restore Hope” per svolgere una azione di pace e garantire l’arrivo degli aiuti umanitari: una missione che sin dall’inizio si delinea più difficile del previsto.
È in questo contesto che il 20 marzo del 1994, a Mogadiscio, vengono assassinati Ilaria Alpi, giornalista del TG3 e il suo operatore Miran Hrovatin.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non sono stati uccisi per una tragica fatalità, ma sono stati assassinati perché erano sulle tracce di traffici illeciti di armi e rifiuti tossici che coinvolgevano da un lato i paesi occidentali e dall’altro quelli africani.
Ilaria Alpi non era una giornalista come tanti, inviati nelle zone di guerra per raccogliere e raccontare i bollettini diffusi dagli organi militari. La sua visione della professione giornalistica era connotata da una forte attenzione e sensibilità nei confronti della cultura e delle problematiche delle popolazioni e dei Paesi nei quali si trovava.
D’altronde il curriculum di Ilaria rappresenta una testimonianza evidente della sua passione per il giornalismo e per le vicende internazionali relative, soprattutto, al mondo arabo: diploma di laurea in Lingue e Letteratura straniere moderne, conseguito nell’86 presso l’Istituto di Lingue orientali dell’università di Roma “La Sapienza”, con una tesi in Islamistica. Ottima conoscenza orale e scritta della lingua araba, della lingua inglese e di quella francese. Esperienze di studio per il perfezionamento delle conoscenze linguistiche al Cairo (grazie a delle borse di studio concesse dal governo egiziano tramite il ministero per gli Affari esteri negli anni 1985 e 1987) presso il Centro Culturale Francese, e l’Università Americana; e a Tunisi, alla scuola “Burgighiba”. Collaborazioni giornalistiche con “il Manifesto” e con i settimanali “Noi Donne” e “Rinascita”, inoltre, a Roma e dal Cairo con le redazioni spettacoli e esteri di “Paese sera”, con la redazione culturale de “l’Unità” e per “Italia Radio”.
Nell’89 si iscrive all’Albo dei giornalisti pubblicisti, vince il concorso da praticante in Rai e nel ’90 viene assunta da Rai Sat. Sempre nel dicembre dello stesso anno viene trasferita al “Tg3” redazioni esteri e nel ’92 vince il concorso da giornalista professionista. Inviata del “Tg3” a Parigi, Marocco, Belgrado, Zagabria e infine per sette volte in Somalia, dal dicembre 1992 al marzo 1994.
Molte delle persone che l’hanno conosciuta la definiscono come una grande professionista e c’è anche chi sostiene di accoppiare alla parola “giornalista” anche quella di “militante”, per dare il senso dello spirito con cui Ilaria viveva la sua vita e il suo lavoro. Militante non nel senso politico del termine, ma come scelta di campo nel suo mestiere: giornalista militante delle questioni africane. Tutti i suoi servizi erano sempre preceduti da una fase di studio e di analisi delle vicende che poi si apprestava a raccontare: non partiva mai per un viaggio di lavoro senza prima studiare, prepararsi, documentarsi.
Un giornalista di “Avvenimenti”, Amedeo Ricucci, che ha trascorso con lei l’esperienza somala ricorda: «A differenza di altri giornalisti interessati soprattutto all’evoluzione della situazione politica e agli accordi tra i vari signori della guerra, Ilaria voleva capire come reagiva la Somalia “profonda” al rientro dei principali contingenti dell’Unosom italiani e americani in testa…”Qui la situazione è troppo confusa”, mi disse a Mogadiscio, mercoledì, prima di partire per Bosso; “Per capire bisogna andare in giro, parlare con la gente. Altrimenti si è prigionieri della velina, oppure degli organismi umanitari che hanno interesse quaggiù”».
Ilaria, infatti, non aveva mai chiesto di essere scortata dai militari italiani. Ella sosteneva caparbiamente che «I ruoli dei militari e dei giornalisti sono diversi ed è bene che restino separati». Una volta, nei pressi di un check-point, si rifiutò, insieme ad altri colleghi, di obbedire all’ordine dei responsabili Onu di imbracciare i fucili delle loro guardie del corpo, appellandosi – in piena conferenza stampa – alla Convenzione di Ginevra secondo la quale i reporter non possono portare armi.
Il suo modo di approcciarsi alla professione, di preparare i viaggi di lavoro con scrupolo e meticolosità, di osservare e di scrutare la realtà circostante era sintomatico di una dimensione valoriale profonda. Il suo entusiasmo per l’adesione all’associazione Ida, un movimento di donne somale per l’emancipazione femminile, è uno dei segni più tangibili del suo impegno sociale e civile. Un impegno che Ilaria ha tradotto nel suo lavoro con la serietà di chi ha consapevolezza che fare informazione, soprattutto nelle zone di guerra, non significa raccontare i fatti restando chiusi in un albergo ad aspettare le notizie che arrivano dalle fonti ufficiali. In questo modo, infatti, il rischio che si corre è quello di dare una lettura scontata degli avvenimenti calpestando i principi fondanti dell’informazione e ignorando le cause e le motivazioni reali che in quei luoghi provocano drammi e tragedie per la popolazione inerme.
Raccontare vicende come quella somala significava per Ilaria soprattutto uscire, incontrare la gente, creare legami con le persone, respirare l’aria di luoghi in cui giungere alla verità è un’operazione estremamente difficile, ma doverosa se si ha a cuore il valore del giornalismo libero da schemi tanto semplici quanto fuorvianti. È questo Ilaria non solo l’aveva capito, ma l’aveva fatto proprio: era diventato il suo modus vivendi.
Ilaria era riuscita a coniugare la propria sensibilità sociale e civile all’amore per la ricerca della verità. Ed è purtroppo la verità giudiziaria che ancora oggi manca a 25 anni dalla sua morte e che le impedisce di avere giustizia. Laddove, infatti, molte inchieste giornalistiche hanno fatto emergere le vere cause che hanno portato alla morte di Ilaria e Miran, la vicenda giudiziaria – condotta in modo molto discutibile nel corso di questi anni – ha subìto innumerevoli depistaggi e non è riuscita a fare chiarezza sulla morte dei due giornalisti. Un motivo in più per comprendere in pieno il valore di alto profilo che Ilaria rappresenta.
Un ricordo, infine, va a Miran Hrovatin. Ilaria l’aveva conosciuto nel febbraio del 94. Era un operatore free lance che aveva già lavorato per la RAI a Belgrado e a Zagabria. Fu la stessa Ilaria che parlò con entusiasmo di Miran ai genitori e ai colleghi, definendolo un operatore, gentile, educato e soprattutto molto professionale.
(Matteo Scirè)