La farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati
Discorso di Liliana Segre al Parlamento europeo, nel 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz
Devo per forza cominciare con i ringraziamenti, all’amico David Sassoli che mi ha invitato qui oggi, a tutto il Parlamento; vorrei anche salutare i parlamentari inglesi che ci stanno lasciando, con grande dispiacere di tutti. Non posso nascondere l’emozione profonda nell’entrare in questo Parlamento, dove si parla, si discute, ci si guarda negli occhi, dopo aver visto all’ingresso le bandiere colorate di tanti Stati affratellati.
Non è stato sempre così.
Alla giornata del 27 gennaio a volte è stata data un’importanza che in fondo non ha. Auschwitz non è stata liberata quel giorno. Quel giorno l’Armata Rossa vi è entrata, ed è molto bella la descrizione che fa Primo Levi ne La Tregua dei quattro soldati russi che non liberarono il campo, i nazisti erano già scappati da giorni, ma si trovarono di fronte ad uno spettacolo incredibile, al momento solo ai loro occhi, che molto più tardi diventò uno spettacolo incredibile per tutti coloro che lo vollero guardare. Ancora oggi c’è qualcuno non lo vuole vedere.
Questo stupore per il male altrui – parole straordinarie di Levi – nessuno che è stato prigioniero ad Auschwitz l’ha potuto mai dimenticare un secondo della sua vita.
Il 27 gennaio avevo 13 anni ed ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union, fabbrica che c’è tutt’ora: facevamo bossoli per mitragliatrici. Di colpo, in fabbrica – dopo che avevamo sentito scoppi lontani, lavoravamo nella città di Auschwitz e sapevamo che le cose stavano succedendo a Birkenau dove ero stata fino a pochissimo tempo prima – arrivò il comando immediato di cominciare quella che venne chiamata la “Marcia della morte”.
Io non fui liberata il 27 gennaio dall’Armata Rossa, io facevo parte di quel gruppo di più di 50 mila prigionieri ancora in vita obbligati in quelle condizioni fisiche, per non parlare di quelle psichiche, a una marcia che durò mesi e di cui si parla pochissimo.
Quando parlo nelle scuole da nonna, come faccio da trent’anni a questa parte, dico che ognuno nella vita deve mettere una gamba davanti all’altra, che non si deve mai appoggiare a nessuno perché nella “Marcia della morte” non potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava nella neve con i piedi piagati come noi e che veniva finito dalle guardie della scorta se fosse caduto. Ucciso.
Come si fa? Come si fa in quelle condizioni? La forza della vita è straordinaria, è questo che dobbiamo trasmettere ai giovani di oggi che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, dai vizi che ricevono dai loro genitori molli per cui tutto è concesso. La vita non è così. La vita ti prepara alla marcia che deve diventare marcia per la vita. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita, qualunque fosse, per cui proseguivamo una gamba davanti l’altra, buttandoci nei letamai, mangiando qualsiasi schifezza, anche la neve che non era sporca di sangue.
Era il male altrui. Le finestre erano chiuse.
Prima attraversammo la Polonia e la Slesia, poi fu Germania. Dopo mesi e mesi, passando altri lager, altri orrori, altri mali, arrivammo allo Jugendlager di Ravensbruck. Eravamo giovani, ma sembravamo vecchie, senza sesso, senza età, senza seno, senza mestruazioni, senza mutande. Non si deve avere paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità ad una donna. E’ così. Abituate oramai a sopravvivere, giorno dopo giorno, campo dopo campo, mi trovai alla fine del mese di aprile del 1945: pensate quanto era lontano il 27 di gennaio. Pensate quante compagne erano morte in quella marcia, mai soccorse perché quasi nessuno aprì la finestra o ci buttò un pezzo di pane.
C’era la paura, la paura che faceva sì che la scelta fosse di pochissimi.
Non si parla quasi mai di questi straordinari che fecero la scelta, si dà per scontato che popoli interi siano stati colpevoli. Non fu solo il popolo tedesco, fu tutta l’Europa occupata dai nazisti, parliamo della Francia, parliamo dell’Italia dove i nostri vicini di casa furono degli aiuti straordinari dei nazisti. In Italia i nostri vicini di casa ci denunciavano, prendevano possesso del nostro appartamento, del nostro ufficio, anche del cane se era di razza.
Questa parola, razza, la sentiamo ancora dire e per questo dobbiamo combattere il razzismo strutturale che c’è ancora. La gente mi chiede come mai si parli ancora di antisemitismo. Va bene che sono vecchissima, nel mio novantesimo anno d’età, ma certo non so perché c’è ancora l’antisemitismo, il razzismo. Io rispondo che c’è sempre stato, ma non era ancora arrivato il momento politico per tirare fuori il razzismo e l’antisemitismo insiti nell’animo dei poveri di spirito. E’ così. Poi, però, arrivano i momenti più adatti, corsi e ricorsi storici, in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile far finta di niente, guardare il proprio cortile. E allora tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno fertile per farsi avanti.
La condizione degli ebrei fu analoga, di fatto se non di diritto, nei paesi alleati occupati dai nazisti; erano stati, e si erano profondamente sentiti, cittadini, patrioti tedeschi, italiani, francesi, ungheresi. Si erano battuti nelle guerre. Io mi ricordo mio padre e mio zio che erano stati ufficiali nella Prima guerra mondiale. Quanti ebrei tedeschi piangevano, si suicidarono perché si sentivano tedeschi più di ogni altra cosa. L’espulsione dalle comunità nazionali fu dolorosissima, andava al di là delle leggi: era appunto il tuo vicino di casa che ti allontanava. Io una bambina diventata invisibile.
Quando subito dopo la guerra per caso restai viva e tornai nella mia Milano con le macerie ancora fumanti, incontrai delle compagne di scuola che non mi avevano più visto: nel 1938 avrei dovuto frequentare la terza elementare, ma eravamo evidentemente un pericolo così grave per fascisti e nazisti che decisero di allontanare i bambini di quella piccola comunità di ebrei italiani – 30, 40 mila persone, per un terzo vittime della Shoah – che era assolutamente integrata nella società. Queste compagne mi chiesero: dove sei andata a finire che non ti abbiamo più vista a scuola? Io ero una ragazza ferita, selvaggia, che non sapeva più mangiare con forchetta e coltello, ancora abituata a mangiare come le bestie. Ero bulimica, ero disgustosa, ero criticata anche da coloro che mi volevano bene: volevano di nuovo la ragazza borghese dalla buona educazione familiare.
È difficile ricordare queste cose e devo dire che da trent’anni parlo nelle scuole e sento ormai come una difficoltà psichica forte a continuare, anche se il mio dovere è, sarebbe questo fino alla morte, considerato che io ho visto quei colori, ho sentito quegli odori, quelle urla, ho incontrato delle persone in quella Babele di lingue che oggi non posso che ricordare qui, dove tante lingue si incontrano in pace. Nei campi era possibile comunicare con le compagne che venivano da tutta l’Europa occupata dai nazisti solo trovando parole comuni, altrimenti c’era la solitudine assoluta del silenzio, la costrizione di non poter scambiare una parola con l’altro che derivava da un qualche isolamento ancestrale di comunità che non si erano riunite in Parlamenti visto che l’Europa da secoli litigava in modo spaventoso.
E le bandiere qui fuori di cui parlavo all’inizio mi hanno fatto ricordare quel desiderio di trovare con olandesi, francesi, polacche, tedesche e ungheresi una parola comune. In ungherese ho imparato una sola parola, “pane”. È la parola principale che vuol dire fame, ma che indica anche la sacralità di una cosa oggi sprecata senza nemmeno guardare cosa si butta via.
Da almeno tre anni sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata non mi danno pace. Non mi danno pace perché da quando sono diventata nonna del primo dei miei tre nipoti, trentadue anni fa – il Parlamento europeo e la mia non estinzione mi paiono lo stesso miracolo, oggi – quella ragazzina che ha fatto la “Marcia della morte”, che ha brucato nei letamai, che non piangeva più, è un’altra persona da me: io sono la nonna di me stessa. Quando mi rivolgo ai miei nipoti che hanno un dispiacere d’amore, di studio, per il mancato raggiungimento di qualcosa che avrebbero voluto raggiungere, sono amorosa, presente, grata dal fatto di essere anche nonna – miracolo eccezionale per una che doveva morire – allo stesso modo sono nonna anche di me stessa, di quella ragazzina.
È mio dovere parlare nelle scuole, testimoniare. Non posso che parlare di me e delle mie compagne. Sono io che salto fuori; è quella ragazzina magra, scheletrita, disperata, sola. E non la posso più sopportare perché sono la nonna di me stessa e sento che se non smetto di parlare, se non mi ritiro per il tempo che mi resta a ricordare da sola e a godere delle gioie della famiglia ritrovata, non lo potrò più fare. Perché non ce la farò più.
Anche oggi fatico a ricordare, ma mi è sembrato un grande dovere accettare questo invito per ricordare il male altrui. Ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all’altra, essere come quella bambina di Terezin – lì potevano fare le recite, colorare con i pastelli: poi, un giorno i bambini furono deportati ed uccisi ad Auschwitz per la sola colpa d’esser nati – che disegnò una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. Io non avevo le matite colorate e forse non avevo, non ho mai avuto, la fantasia meravigliosa della bambina di Terezin.
Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati.
Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali. Che siano in grado di fare la scelta. E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati.