(Elisabetta Brugè) 750 anni sono un tempo davvero lungo per celebrare in autenticità qualcuno o qualcosa e la fretta divoratrice di memoria, che caratterizza la nostra epoca, spingerebbe ad archiviare – fatti salvi i doveri della retorica – anche un personaggio e un’opera del calibro di Dante Alighieri e della sua poesia. Troppo distante da noi, troppo complicato da seguire, troppo difficile da imparare sui banchi di scuola… sono alcune delle litanie che si sono sentite recitare anche in questi giorni, a margine dei festeggiamenti per il compimento del settimo secolo e mezzo dalla nascita del “sommo poeta”.
Ma al di là delle tentazioni di rimozione, è possibile individuare un filo rosso che leghi Dante al nostro contesto culturale? Cosa ci lega, insomma, oggi a Dante, cosa in lui – e in ciò che di lui e per lui ancora ci parla attraverso la sua poesia – giunge a toccare le corde del desiderio profondo che ci precede e costantemente ci spinge oltre? O, in altre parole: quali sono i tratti della paternità che Dante esercita nel nostro contesto culturale caratterizzato dal “vuoto” o dall’“evaporazione” del padre?
In un tempo di ricerca spasmodica di immediatezza di godimento in ogni ambito dell’esperienza umana – sia essa fisica, intellettuale o spirituale – Dante fa, innanzitutto, consapevole dono all’umanità di un’occasione personale e profonda della felicità: «il fine del tutto e della parte è allontanare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità» (Ep. XIII, 15). Attraverso il dono della poesia nella Commedia abilita, chi si dispone a relazionarsi con la sua sintesi di esperienza della vita, a intraprendere un cammino verso se stessi, di consapevolezza del desiderio autentico che solo permette di “fare” la propria felicità.
Il primo movimento, quindi, dell’esercizio di paternità di Dante è la richiesta di una cesura, di uno stacco, da parte nostra, dall’abitudinario modo di guardare alla vita e di intendere la felicità, mai priva di fatica del desiderio ma, proprio per questo, spazio di autenticità.
A chi di noi, poi, si disponga a intraprendere l’avventura del sé, Dante offre uno spazio simbolico di interazione che è la sua poesia, fatta di un’infinita varietà di registri – lirico, epico, satirico, drammatico, didascalico… – nella quale trova espressione la profondità del suo spirito e l’originalità del suo personale cammino. Questo non ci viene imposto a modello, ma donato come terreno di relazione in cui crescere, osservando le emozioni, i dubbi, le fragilità, le speranze, le passioni e perfino le estasi di un padre che cammina avanti a noi, senza mai “spadroneggiare”: «Un padre della testimonianza non può trasmettere…quale sia il criterio universale della felicità, perché nessuno possiede questo sapere. …Perché è solo sullo sfondo di questa impossibilità che si apre la possibilità di incarnare il proprio desiderio come vitale e capace di fruttificare. Se … questo impossibile viene … aggirato nel nome di un sapere sulla vita e sulla morte totalizzante e senza mancanze, non si dà trasmissione alcuna ma solo persuasione ideologica» (M. Recalcati, Cosa resta del padre?, pagg. 63-64).
Seguendo l’esperienza di questo padre siamo indotti a confrontarci con una ricchissima gamma di contesti esistenziali da lui attraversati: la realizzazione della pace, il senso, il valore e i rischi della politica, il rispetto e l’ammirazione per la cultura universale – sacra e profana, pagana, cristiana o islamica -, per ogni genere di valore umano, l’umana pietà, la tenerezza struggente per il cuore dell’uomo in ogni sua espressione. Guardandolo confrontarsi e reagire di fronte alle più svariate situazioni in cui la vita interpella un uomo, senza mai sottrarsi, siamo anche noi indotti e incoraggiati a guardare negli occhi la vita, senza pregiudizi, senza infingimenti, senza limiti, scoprendoci finalmente “capaci di infinito”.
Lungi dall’essere il fronte di una perdita di autorevolezza, quindi, l’atteggiamento di testimonianza non “esemplare o universale”, ma accogliente e dialogante, permette al Poeta di esercitare un’ulteriore dimensione di paternità sulla cultura odierna. Veicolare, cioè, i valori della visione cristiana della realtà, ai quali profondamente aderisce, non come ideali “re-ligiosi” – nel senso di leganti, costrittivi, tanto esigenti e impositivi quanto sterili – ma come atto del proprio desiderio, proposto e reso suadente dalla bellezza sublime ed efficace del canto. Il dono dell’esperienza del Padre Dante, dell’avventura coraggiosa del suo desiderio scoperto e coltivato fino alla più ardite propaggini dell’umana capacità, è il varco che permette al cristianesimo che permea la sua testimonianza di lambire anche il nostro orizzonte di senso, di interrogare il nostro desiderio di “ipermoderni”, invitandoci a nostra volta al coraggio della fede. «La Divina Commedia può essere chiamata un itinerarium mentis in deum…e i temi della poesia in effetti sono offerti come testimonianze sicure e moniti perché si ascenda a Dio… E a questa ascesa, rivolta a ciò che più è segreto ed eccelso, diventa epos di vita interiore, epos di grazia celeste, epos di viva esperienza mistica, di virtù multiforme; diventa teologia della mente e teologia del cuore.» (Paolo VI, “Altissimi cantus” 18-20).