Leggere e scrivere in digitale. Cosa cambia per il cervello?
Al tempo dei media digitali si legge di più o si legge di meno? Leggere a schermo modifica il nostro modo di comprendere i significati? E cambia il nostro modo di scrivere? Sono alcune delle domande che genitori e insegnanti si pongono per capire quali siano spazi e tempi corretti da lasciare ai dispositivi a casa, a scuola, nel tempo libero. La ricerca suggerisce che proprio la questione del tempo è determinante. Maryanne Wolf, neuroscienziata che da anni studia il cervello che legge, ha osservato che leggere a schermo finisce per inibire, a lungo andare, la lettura profonda. Si corre via, alla ricerca di alcuni snodi del testo che consentano di coglierne sinteticamente il senso senza prendersi il tempo di pesarne ogni singola parte: il rischio è che si comprometta la capacità di comprendere con esattezza il significato di quel che si sta leggendo. Si legge, ma spesso senza capire cosa: i risultati delle prove Invalsi da qualche anno dimostrano proprio questo, ovvero una tendenziale incapacità degli studenti italiani a comprendere il significato di un testo scritto.
Colpa degli schermi? Probabilmente no. Ma di certo le condizioni in cui si legge svolgono un ruolo determinante: si legge in mobilità, in metropolitana, nei tempi morti, mentre si svolgono altre attività. I tempi della lettura sono sempre compressi: si riesce a gettare uno sguardo sullo schermo, quasi mai a prendersi il tempo necessario per leggere veramente. E lo schermo digitale è perfettamente complementare rispetto a queste abitudini di consumo: sempre disponibile, consente con un clic di richiamare il testo e di scorrerlo con il movimento di un dito. Qualche anno fa l’economista Daniel Kahneman ha distinto quelli che lui chiama i pensieri veloci dai pensieri lenti. Sono veloci quei pensieri che sorreggono le nostre decisioni in tempo reale: vale per tutte le situazioni in cui siamo abituati a rispondere quasi istintivamente, senza pensarci troppo, perché prendersi il tempo per pensare comporterebbe di rendere vana la decisione. Al contrario i pensieri lenti sorreggono le decisioni ponderate: valutiamo tutti gli elementi, avanziamo delle ipotesi, le vagliamo mentalmente, arriviamo a una decisione valutata con calma, sorretta da argomentazioni.
Pensieri veloci e pensieri lenti dovrebbero appartenere entrambe alla nostra economia cognitiva: i primi servono in alcuni casi, i secondi in altri. Di fatto, però, la velocità a cui siamo progressivamente sempre più condannati, nella vita di tutti i giorni, a casa come nelle organizzazioni, può comportare che tendiamo a ricorrere via via in modo sempre più frequente soprattutto ai pensieri veloci. Lamberto Maffei, a lungo direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, ha osservato che questo potrebbe comportare a lungo delle modificazioni nel nostro modo di elaborare le informazioni, favorendo il lavoro del ‘cervello basso’ (la via ventrale) a svantaggio di quello del ‘cervello alto’ (la via dorsale): bravi nel problem solving in tempo reale e a fronteggiare situazioni di emergenza, potremmo perdere progressivamente la capacità di pianificare a lungo termine. Il vero problema, dunque, non è il digitale, ma la velocità. Occorre trovare il modo di rallentare perché solo rallentando è possibile attivare i nostri pensieri lenti. La lettura, quella profonda, ha bisogno di tempi distesi: il fatto che legga sulla pagina o sul mio Kindle, da questo punto di vista, non comporta differenze.
Quanto alla scrittura, in maniera totalmente controintuitiva, i dati dicono che si scrive decisamente di più oggi che rispetto a qualche decennio fa. Ma certo questo dato quantitativo va interpretato: non si scrivono più saggi, o più romanzi; spesso la scrittura è funzionale alla comunicazione privata e professionale; si scrivono mail, si posta sui social. Anche in questo caso, come in quello della lettura, il tempo è un fattore determinante. La scrittura si accorcia, si fa sintetica. Gli schermi digitali sono a questo riguardo un fattore codeterminante: proprio perché si dispone di poco tempo, il formato dello Short Message risulta assolutamente funzionale, ma a lungo andare quel formato finisce per modificare la nostra attitudine alla scrittura e così finiamo per essere sintetici sempre, anche quando non servirebbe o forse sarebbe meglio non esserlo.
Andrea Lunsford, professoressa di inglese all’Università di Stanford, ha concepito una ricerca longitudinale (lo Stanford Study of Writing) che studia come si modifichino le pratiche di scrittura degli studenti in un arco di cinque anni. E il dato è che negli ultimi anni è progressivamente cresciuta la capacità dei partecipanti di scrivere testi sintetici, perfettamente centrati sul loro obiettivo, capaci di raggiungere il destinatario in maniera efficace. Ma si può dire che sia andata modificandosi anche la pratica della scrittura. Quando non esistevano i computer, al tempo della scrittura manuale, l’organizzazione del testo si svolgeva sostanzialmente a priori. Questo significa che avevo bisogno di pensare bene cosa volessi scrivere prima di trasferirlo su carta: certo, le correzioni erano possibili, ma non oltre un certo limite, quello imposto dallo spazio stesso della pagina. Potremmo dire che quel tipo di scrittura assecondava, anzi richiedeva, il pensiero lento. La scrittura digitale, invece, procede in modo diverso. Butto giù una prima idea, quattro o cinque righe; la espando; taglio la prima parte e la sposto in fondo al testo; aggiungo dei titoletti; lavoro sulle conclusioni prima ancora di aver scritto il resto del testo. Scrivo per accumulazione, in tempi successivi, anche per pochi minuti alla volta. L’organizzazione del testo è assolutamente a posteriori: non mi serve avere ben chiaro in testa quel che voglio dire insieme alla sua articolazione; intervengo dopo, sullo schermo. Si tratta di una scrittura che è perfettamente coerente con il pensiero veloce. E se mi abituo a scrivere a schermo, a lungo andare divento incapace di farlo con carta e penna. Non è un problema di manualità: sugli schermi digitali si può scrivere manualmente con delle penne che riproducono perfettamente il carattere dinamico della scrittura su carta. Il problema è cognitivo, di organizzazione mentale.
In alcuni contesti si discute anche se sia utile o meno proibire agli studenti di seguire le lezioni universitarie in aula con l’ausilio del computer: alcune ricerche hanno dimostrato che il computer da un lato può favorire la distrazione, dall’altro che prendere appunti alla tastiera, annotando parola per parola, può dare risultati diversi nell’apprendimento. Arriviamo così al cuore del problema. I media digitali sono espressione (e supporto) di un’organizzazione sociale basata sulla velocità, anzi, sull’accelerazione. Da questo punto di vista essi non rappresentano il vero problema: è la logica dell’accelerazione che occorre disinnescare. E tuttavia, come il caso della scrittura digitale dimostra, a lungo andare leggere e scrivere digitale finisce per comportare delle modificazioni nel nostro modo di costruire e decostruire i significati. Chiudere i media digitali fuori dalle classi, come la Francia di Macron ha fatto, credo non serva. Occorre piuttosto chiedersi come sia possibile, all’epoca dei pensieri veloci, continuare a coltivare anche l’attitudine al pensiero lento. Il nuovo non comporta il sacrificio del vecchio: la sfida è farli coesistere. La Wolf dice che è come insegnare due lingue straniere a un bambino piccolo: educare il cervello bilingue è la sfida di oggi e di domani.
(Fonte: Avvenire.it)
*Professore di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento Università Cattolica di Milano.