«FATE ATTENZIONE, VEGLIATE…»
(Is 63,16-17.19; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37)
Nella prima lettura, così intensa e appassionata, il profeta Isaia ci offre uno dei testi più belli e struggenti dei suoi scritti. É un grido di aiuto, di dolore, di smarrimento, di amore, di sincero pentimento e riconoscimento delle proprie colpe. Vengono toccate tutte le corde per giungere al cuore di Dio, che per ben due volte viene invocato col nome di “padre”, un titolo veramente non comune nell’Antico Testamento, ma sul quale il profeta fa leva per trovare ascolto. Non si avanzano pretese, anzi tutta la preghiera è come una pubblica confessione delle colpe del popolo che ostinatamente ha voluto percorrere altre strade allontanandosi dal suo Dio. Si fa appello solo al suo amore, nella fiducia che non voglia far perire definitivamente il suo popolo, opera delle sue mani. Traspare lo sgomento ed il senso di impotenza di questo popolo nella domanda straziante: “Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie?”. É come dire che, lontano da Dio, il popolo finisce col perdere persino il senso della sua identità, si trova spaesato. Si è illuso di poter fare a meno di Dio, per giungere all’amara costatazione del suo fallimento.
Dopo aver rifiutato Dio, il suo popolo adesso ne invoca la presenza, come l’assetato desidera un sorso d’acqua e chi sta per soffocare desidera una boccata d’aria per respirare. Da qui la potente invocazione di squarciare i cieli e scendere in mezzo al suo popolo, fargli rivivere la gioia della sua presenza. Il ricordo della passata esperienza comincia ad affiorare. Lacrime di amarezza sgorgano nel rendersi conto della propria stoltezza, per non aver compreso l’amore folle di Dio, che è stato sempre vicino al suo popolo. Solo adesso questo popolo si rende conto che nessuno altro dio ha fatto per i suoi fedeli quello che Jahvé ha fatto loro. Ora comprende che l’abitudine ad escludere Dio dalle sue scelte ha indurito il suo cuore e lo ha reso incapace di ri-orientarsi verso di Lui. Così chiede a Dio un intervento speciale, quello di rimpastarli di nuovo, come per realizzare una nuova creazione: “Siamo argilla, e tu sei colui che ci plasma!”. Il salmo riprende l’invocazione di soccorso a Dio, a cui si chiede di dare ascolto al grido del suo popolo, risvegliare la sua potenza, e ritornare in mezzo ad esso per salvarlo e farlo rivivere.
Questa confessione pubblica suona oggi di estrema attualità. Percepiamo di trovarci in una situazione senza uscita, nella misura in cui escludiamo Dio dai vari ambiti della nostra esistenza. L’esercizio dell’autorità spesso si trasforma in ricerca di potere, di interesse personale invece di essere servizio disinteressato verso la comunità. La cosa pubblica viene facilmente gestita come cosa di parte o di gruppi di potere. Il dono della libertà è spesso interpretato come possibilità di abolire ogni norma morale e di regolarsi secondo il proprio capriccio o interesse. L’economia conosce come sola legge quella del massimo profitto, invece che quella della solidarietà e di una equa distribuzione delle ricchezza. L’apparire, il farsi vedere, l’esibire ricchezza vale più dell’essere. Il piacere e la soddisfazione immediata sono scambiati facilmente per gioia. La famiglia è frammentata in individui che spesso finiscono per vivere ognuno per conto suo, sgretolando il senso di comunione. Il debole, il malato, lo straniero, l’anziano che ha bisogno vengono mal sopportati e l’accoglienza lascia a desiderare. La vita umana non è rispettata e tutelata dal suo primo sorgere fino al suo naturale declino. La natura viene violentata e si ritorce contro l’uomo.
Motivi per riflettere ce ne vengono suggeriti a non finire. E Gesù, nella parabola che riguarda l’imprevedibile attesa del ritorno del padrone, ci mette in guardia per farci trovare pronti e non essere colti di sorpresa. Troviamo indicazioni date in maniera molto secca, per farci comprendere l’urgenza di quello che ci viene detto: “Fate attenzione, vegliate (e questo verbo è ripetuto per ben quattro volte), attendete con impegno al vostro compito, non fatevi trovare addormentati!”. Sono questi gli atteggiamenti suggeriti con insistenza da Gesù ai suoi discepoli, ed infine estesi a tutti, per farsi trovare ben preparati in qualunque momento il padrone ritorni e bussi alla porta. Il richiamo all’attenzione ci suggerisce il prezioso dono del discernimento, per saper ben comprendere quello che è giusto, retto, buono, veramente utile alla vita e ad un sano sviluppo dell’uomo e della società da ciò che invece li compromette e si trasforma in trappola mortale. É facile ingannarsi e lasciarsi abbagliare dalle apparenze. Non la tecnica, l’economia, la legge, la scienza, la tecnologia o qualunque altra realtà devono stare al centro, ma l’uomo, al cui servizio esse sono poste.
Il ripetuto monito a vegliare, a non lasciarsi prendere dal sonno, mi fa pensare ad una favola, nella quale si parla di un ragno che un giorno decide di costruirsi la nuova abitazione, una bella tela. Così scende giù dal soffitto ed incomincia con pazienza ed abilità a tessere la sua tela fino al suo pieno compimento. Alla fine, contento del lavoro compiuto, si mette a far festa, si ubriaca e si addormenta. Quando si sveglia, ancora mezzo stordito, fa il giro di ispezione della sua bellissima tela, e nota che c’è un filo ben robusto che scende dall’alto e collega tutta la sua opera. Ma, mezzo addormentato com’era, non riesce a capire cosa ci stesse a fare questo filo che scende dall’alto. Gli gira e rigira attorno, ma non se ne persuade. Così arriva a pensare che quello è un filo superfluo e decide di troncarlo. Ma non appena compie questo gesto, egli stesso si trova avviluppato nella tela che aveva intessuto e che si accartoccia su se stessa, non avendo più il suo centro. Così avviene all’uomo, quando si dimentica di Dio e perde di vista la verità che tutto trova ragion d’essere solo in Lui.
Padre Pino (Giuseppe Licciardi)